"Fameliche Erinni" di Francesco Di Venuta

Prefazione di Simona Di Venuta

A vent'anni dal romanzo di esordio (Il fuoco della malannataè del 1996 seguito, a chiudere il ciclo della trilogia degli Alburni da Come piovessero fiamme del 1999 e due anni dopo da Edipo
non ha colpa) a dieci da Torrida festa, Francesco Di Venuta approda al terreno – per lui nuovo – della poesia.

Proprio nuovo forse no, se nella lirica "Non sai quante volte…" ricorda "Gli ottomila versi/del poema composto a quindici anni " , se Un cielo un'assonanza…, Sceglievano te…e Più forte dell'amore… sono datate rispettivamente 1965, 1974 e 1988 ma restano nel cassetto per decenni per uscire in volume solo adesso con le altre liriche, tutte composte tra il 2013 e il 2014.
Una cosa bisogna dirla. Dell'esperienza in prosa Fameliche Erinni - pur così distante, e non solo cronologicamente, da quella stagione - parecchio mantiene - e questo è, forse, anche un limite - non tanto nei testi di più ampio respiro ma nella struttura stessa della raccolta che segue - con il ritmo e la cadenza che sono propri del testo narrativo – la parabola del bambino e dell'uomo, alle prese – il primo - col freddo degli inverni e degli adulti e il secondo - adulto a sua volta - con l'inferno che sono gli altri, secondo il dettato di Sartre e - più ancora, forse - con la anima sua perseguitata dalle Erinni.
Mi hai dato in pasto/ alle Erinni nere/ del rimpianto.


Le Erinni che non sono più le furie vendicatrici dei delitti di sangue, non sono Aleppo, Megera e Tisifone che perseguitano Menelao e Alcmeone ancora grondanti del sangue delle madri e Pantesilea della sorella; le Furie dell'epoca nostra, segnata dalla nevrosi e dalla psicoanalisi, sono i fantasmi che straziano chi ha fatto male e danno non ai consanguinei ma a se stesso, chi ha lasciato passare i treni e le rose, chi ha buttato al vento i momenti "sì" che la vita qualche volta pure concede… Ma che è stato a portarlo a questo?
Il poeta scava nel passato, nell'infanzia lontana e la risposta
la trova lì, nelle esperienze amare che hanno finito per acuire 5 quel senso di disagio, di estraneità e inadeguatezza e reso più profondo il solco.
Vae puero cui non risere parentes… Sembra gridare con Virgilio,
quel Virgilio che con parecchio anticipo sui tempi e su Freud aveva intuito che il bambino è il padre dell'uomo.
Guai a quel bambino a cui i parentes non sorrisero… Dove i parentes sono ante litteram non i soli genitori ma gli adulti tutti, simboleggiati dallo staffile del maestro, è la vita stessa che con la sua logica spietata e incomprensibile non risparmia né persone (l'amico volato via in moto, la nonna morta il giorno di Natale) né animali ( il cane divorato dalla rabbia, i capretti sgozzati davanti ai suoi occhi).
Guai a quel bambino a cui gli adulti e ( gli eventi ) non sorrisero.
Perché, da adulto, non sarà ammesso – ed è ancora Virgilio a pronunciare la sentenza – né alla mensa degli dei ( nec Deus hunc mensa ) né - e questo è ancora peggio - all'amoroso giaciglio di Venere (Dea nec dignata cubili est ).
E difatti. Neppure l'amore, che riempie la seconda parte della raccolta e che la vita dovrebbe riempire, neppure l'amoreè salvifico.
Perché, inchiodato – e compromesso freudianamente - dalla
voce/ ipocrita/ del prete/ e dalle stupide paure dell'adolescenza (Sogno di mezzo autunno), concede – se pure la concede – una felicità che dura appena lo spazio del peccato e quasi sempre come
peccato è visto e vissuto e quando si apre al lecito, al permesso,
è per permettere al destino – o a chi per esso – "le divertissement"
che tante vite – e tanta letteratura – ha segnato.
C'è il "no" degli occhi suoi/ il "sì" di altri occhi/ a promessa d'inferno
( Verrà qualcuno ) Anch'io scelsi quel giorno/ - e non sapevo -/la strada nera/ del rimpianto…( Appassiscono le rose)
E rieccole, le Erinni. A dilaniare chi, colpevolmente, è rimasto
al palo. Nere falene/vengono la sera/che mi trovi da solo/ o in compagnia. Battono forte alla finestra ma solo io le sento/le voci amare delle cose/che potevo avere/ e non ho avuto…(Nere falene)

Ciò che ha avuto – come tutti del resto e a piene mani - è
sofferenza e disincanto.
Dovunque giri gli occhi,/ ovunque vada/ non c'è angolo di strada/
non c'è cielo/ sia esso di nuvole o di sole…/Non c'è vento/non
odore/che unghiate non mi lasci/di un dolore. (Il cerchio si chiude)

Il dolore si è come cristallizzato negli spazi limitrofi, nei
suoni e nelle cose, nelle parole stesse, nelle domande senza
risposta. Perché senza risposta è - ed appare del tutto gratuito
- il male che c'è sulla terra e quotidianamente attenta alla fede
e a Dio.
Ti toglieranno Dio… Cani famelici usciti dalla selva… / Ma più
sarà ad affondare i denti / e toglierti Dio / chi hai accanto.(Ti toglieranno il cielo) Ancora gli altri, allora. Ancora Sartre e il suo " L'inferno sono gli altri".
Ma la colpa è solo "esterna"? Il dubbio comincia a rodere.
Come già Edipo. Il colpevole chi è di quella peste che sono adesso i mali dell'anima? Chi è incapace di aprirsi agli altri?
Di capire e di farsi capire? Che il male sia, insomma, tutta una
questione di "malentendu", di incomprensioni? E il processo - di stampo kafkiano - l'autore lo fa a se stesso, ai limiti suoi di socialità e di tenuta psicologica. Scava nel passato - nell'infanzia, nell'adolescenza e, ancor più, nelle débacles dell'uomo.
E non c'è bisogno di giudici, di pubblico ministero o di avvocati
d'ufficio.
Alla verità ci arriva da solo e confessa. Le paure sue. In primis
della Nerovestita, venuta a portar via il cane, i capretti, la
nonna giusto il giorno di Natale.
Se cercai / nelle cose sempre il nero/ il grigio anche quando era sereno/ e la sconfitta /prima che sconfitto fossi,/ fu perché potessi dire:/ "Che cosa perdo,/ se la vita perdo?" (Per vivere ).
E la condanna - per chi "per vivere è dovuto /morire/molto prima
di morire" - la condanna - scontata e senza sconti – è al deserto,
al vuoto.
Come farò a sbarcare /un'altra primavera, un'altra estate?/

L'inverno, ancora ancora…(Un' altra primavera)
Svegliato ai canti e ai suoni/nel cuore della notte,/chi ai canti e ai
suoni/è forestiero ormai/ come farà/il resto della notte/ a attraversare? (Italia-Inghilterra 2-1)

Simona Di Venuta

 

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